Covid 19: la variante inglese

Covid
Studio: Epitopi mirati a dalle celle di T in paziente convalescente COVID-19. Credito di immagine: fusebulb/Shutterstock

È di questi giorni la notizia dell’isolamento in Inghilterra di una “variante” del virus Sars-Cov2.

Come tutto ciò che riguarda il Covid-19 la notizia ha destato molto interesse da parte della popolazione generando paure e timori, per questo, pur nella semplicità del linguaggio, proveremo a fare chiarezza su alcuni aspetti.

Il Covid-19 appartiene alla classe dei virus a RNA e pertanto soggetto a mutazioni, portando con sé inevitabili errori di “copiatura” nel proprio codice. Le mutazioni sono inevitabili nella fase di replicazione e sono direttamente legate all’aumento della sua circolazione.

Uno studio del 10 giugno indicava in circa 27 una stima del numero medio di mutazioni che il genoma del coronavirus avrebbe potuto accumulare nell’arco di 12 mesi, a oltre 6 mesi di distanza si rileva un dato (22,91) in linea con le previsioni e questo ci indica che l’evoluzione del virus  segue la velocità di mutazione prevista.

Non tutte le mutazioni hanno l’effetto di modificare in modo significativo le caratteristiche del virus. Fortunatamente la gran parte non ha nessun effetto. Delle numerose mutazioni che la variante inglese presenta soltanto una (la N501Y) ha un effetto funzionale documentato.

Questo ha portato il mondo scientifico ad interrogarsi se questa mutazione (la N501Y) da sola o insieme alle altre mutazioni della variante inglese hanno conferito al virus una maggiore contagiosità. L’osservazione dei dati fra la comparsa della variante e l’aumento percentuale del picco epidemico osservato in Inghilterra  inducono a pensare che questa variante abbia una maggiore capacità di trasmissione. Secondo quanto dichiarato dal ministro della Salute inglese si ipotizza una trasmissibilità del ceppo variante aumentata del 60%. Fortunatamente ad oggi i pazienti infettati con la variante inglese non mostrano andamenti clinici anomali e dato più importante si registrano pochissimi casi di seconda infezione, cosa che porta ritenere che i vaccini, che a breve verranno distribuiti, rimangono efficaci.

 I vaccini Covid-19 sono stati preparati tenendo conto della sequenza di spike presente sul virus ancestrale ( il D614 originale). Buon per noi recentissime ricerche hanno mostrato che anche altre varianti sono sensibili ai campioni di siero come il ceppo D614 dissipando i timori di una mancata risposta immunitaria sulle possibili varianti del virus.

In effetti se oggi ci trovassimo difronte ad una sostanziale differenza fa il Sars-Cov2, comparso un anno fa, e la variante inglese chi avesse contratto nella prima ondata il virus oggi si riammalerebbe perché gli anticorpi sviluppati contro il primo ceppo (ancestrale) non proteggerebbero anche dal secondo. Così non è, infatti ad oggi i casi di reinfezione in Inghilterra sono molto rari.

Ma ulteriore dato a favore della valenza dei vaccini è che questi ci proteggono non solo grazie agli anticorpi ma anche grazie all’immunità cellulare che, a differenza degli anticorpi, non è sensibile a queste mutazioni della proteina Spike.

epitopo
Fig.1

Ora addentrandoci per poco nei tecnicismi possiamo notare [Fig. 1] che la proteina spike del Sars-Cov2, come accade con altri antigeni, ha sulla sua superficie molteplici siti di legame (detti epitopi) che riconoscono ognuno uno specifico anticorpo. Se mutasse solo uno di questi siti e gli altri rimanessero invariati il Sistema Immunitario (S.I.) continuerebbe a riconoscere la spike virale mutata perché gli epitopi non mutati continuerebbero a legare rispettivi anticorpi. 

Per tale motivo il S.I. di un soggetto che per via naturale o vaccinale è stato immunizzato verso il ceppo originale di Sars-Cov2 è, con alta probabilità, immune anche alla variante inglese.
Per intenderci è un po’ come quando noi riconosciamo un individuo sia che non porti gli occhiali (ceppo originale) o che li porti (ceppo mutato) [Fig. 2].

Ragazza con o senza occhiali
Fig. 2

Il mondo scientifico si stia interrogando circa l’origine di questa variante, in quanto sono presenti mutazioni non solo nella proteina Spike ma anche in altre proteine del virus. Riuscire ad avere una risposta aiuterebbe molto a fare previsioni sulla probabilità che eventi di questo tipo si ripetano nel futuro.
Ad oggi l’ipotesi più accreditata è che la variante sia emersa in uno dei rari pazienti che mantengono il virus attivo per lunghi periodi, anche 3-4 mesi in certi casi, subendo cicli ripetuti di terapie antivirali (come il Remdesivir) e di plasma iperimmune.
L’effetto di queste terapie ha avuto come effetto indotto la selezione di varianti resistenti mediante accumulo successivo di mutazioni diverse. Un paziente Covid-19 di questo tipo è stato descritto recentemente in un lavoro pubblicato sul New England Journal of Medicine.
Possiamo concludere che al momento le raccomandazioni sul distanziamento e l’impiego di mascherine rimangono tuttora valide.

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