
Tra le figure eminenti di questa generazione di caposelesi vi era di sicuro Amerigo Del Tufo, medico condotto, molto apprezzato anche come pediatra. Egli fu il primo sindaco eletto del dopoguerra. Dopo quell’esperienza ha sempre esercitato una forte influenza nella politica cittadina. Quasi fosse un’eminenza grigia, ascoltata e sempre tenuta in considerazione.
Di certo figura molto acuta ed intelligente, sorniona ed ironica. Passare del tempo con lui non era mai un perder tempo. Negli anni dopo il terremoto del 1980 trascorreva molto del suo tempo libero con alcuni giovincelli capitanati da Antonio Sena. Ed io tra questi.
L’ultima volta che siamo stati insieme è stata una serata tirata fino a tardi. Serata stranamente calda di metà dicembre. Seduti sugli scalini del vecchio palazzo scolastico di piazza Dante si discuteva delle tante e solite amenità della vita quotidiana. Dal costone della pietra dell’Orco, che sovrasta il centro abitato, giungeva con sempre maggiore insistenza il canto (per meglio dire, un lamento) di una cuccuvaia.
La cuccuvaia è il sostantivo dialettale della civetta. Il canto della cuccuvaia, specie quando prolungato, è anticipatorio di cattivi presagi, almeno nella nostra tradizione popolare. La civetta veniva usata generalmente dai cacciatori come esca per le prede. Da qui l’idea che il suo canto anticipi la morte di qualcuno.
A questo pensava Amerigo Del Tufo nel commentare il canto proveniente dalla boscaglia a monte. E ci raccontò un episodio accaduto ad un suo collega di Calabritto, il medico Di Trolio. Questi fu di notte chiamato per un’emergenza. Una signora sentiva che stava per morire. Quella notte nevicava come poche altre volte. L’aria in paese era silenziosa e soffice come la neve che fuori cadeva.
Giunto al capezzale della signora, il medico fece un primo esame clinico, misurò la pressione arteriosa, auscultò i bronchi e i polmoni. Insomma non fu per nulla avaro nella valutazione complessiva. Ne dedusse che la signora non solo non stava morendo, ma che addirittura le sue condizioni potevano dirsi quasi invidiabili.
La signora non riuscì a trattenere un moto di ribellione: “ma come, ma che dite? ‘I sto murenn”.
“Signora potete dire quello che volete, ma voi state bene, non avete niente”, aggiunse il medico.
Dopo tante insistenze, la signora pronunciò finalmente la sua verità: “Dottò, ma allora vuie nun vulite capì. Ma la sentite la cuccuvaia? Questa stai cantann’ p’ me!”.
Di Trolio, allora, con santa pazienza tentò di spiegarle che quella era una credenza popolare che mal si conciliava con la certezza della scienza e, nel suo caso, della scienza medica. La signora non volle sentire ragioni che fossero diverse dal suo fermo convincimento. Dopo un’ultima, faticosa resistenza, Di Trolio cedette, sopraffatto.
“Signora, sì, avete ragione, solo che c’è un però: la cuccuvaia non sta cantando per voi, ma per il vostro vicino”. La signora, quindi, placò la sua funebre ansia e pensando di averla scampata anche quella volta ringraziò il medico per averle deviato le attenzioni della cuccuvaia, a favore del vicino. Il quale, vivendo nell’appartamento adiacente ed essendo quelle abitazioni di edilizia economica e popolare, le cui pareti sono notoriamente sottili come carta velina, sentì tutta la conversazione tra la signora e il Dottore di Trolio.
Stanco per l’inatteso e fuorviante impegno notturno, quella mattina Di Trolio dormì un po’ più del solito. Peraltro, continuava a nevicare e le strade di Calabritto erano al limite della percorribilità. Uscendo di casa, prima di dirigersi verso lo studio, decise di andare al bar a bere un caffè.
Entrò, si avvicinò al bancone e ordinò il solito caffè macchiato. Nell’avvicinare la tazzina alle labbra, non capì più nulla. La tazza si infranse all’altezza degli occhi, rovesciandosi e cadendo per terra. Un dolore alla nuca si materializzò solo qualche secondo dopo aver ricevuto il colpo, che gli parve potesse essere stato causato da un sonoro ceffone.
Si girò impaurito e dietro di sé vide la figura imbronciata di Carluccio ‘r coccia, che aggiunse di soppianto: “e ‘rimmellu pur’ mo: p’ chi cantava stanott la cuccuvaia?…”
Sugli scalini del palazzo scolastico si liberò una risata vera che durò qualche minuto. Amerigo del Tufo, lusingato per l’effetto provocato dal racconto sul suo collega di Calabritto, si alzò e facendo capire che s’era fatto troppo tardi, ci lasciò con una domanda cui nessuno, ovviamente, diede risposta: “sta cuccuvaia p’ chi stai cantann?”. Sorrise e si avviò verso casa.
Fu l’ultima volta che lo vedemmo vivo. La mattina dopo sarebbe andato a Napoli, dove vivevano i figli, a vedere la partita di campionato della sua squadra del cuore. Quel fine settimana si ammalò di una banale influenza. Quando, tra natale e capodanno, del tutto inattesa giunse la notizia della sua morte, il primo pensiero andò alla cuccuvaia che, con insistenza, cantava in quella calda notte di metà dicembre, appena due settimane prima
Tratto dal libro “Seletudine”di Gerardo Ceres