
Il fatto che ricorderemo, con i suoi contorni, i suoi risvolti e i suoi drammatici esiti si può, senza alcuna forzatura, inserire tra gli annali delle inchieste criminologiche. A distanza di più di 50 anni, tuttavia, nel chiedere chiarimenti su alcuni particolari determinanti dell’intera vicenda, ho avuto modo di constatare quanto sia labile la memoria di chi pure ha vissuto quei giorni in cui Caposele occupò le prime pagine della stampa nazionale e durante i quali si scomodarono le migliori firme del giornalismo nazionale. Mi sarà perdonata qualche imprecisione involontaria, che però non stravolge l’insieme del contesto e delle modalità con cui si è sviluppata tale, tragica storia.
Le immagini (ovviamente in bianco e nero) ci proiettano in una mattinata umida e fredda di ottobre del 1957, quando due fanciulli furono trovati morti in un vallone sotto la Preta r’ Santa Maria, ai confini con l’Oppido di Lioni. Non avendo fatto ritorno a casa la sera, sin dall’alba le ricerche si diressero verso i luoghi dove solitamente i due bimbi andavano a pascolare le poche capre e pecore appartenenti alla famiglia. La scena che si presentò dinnanzi ai ricercatori fu raccapricciante: i due piccoli corpi erano riversi sul greto del torrente con impressionanti lacerazioni dovute all’impatto violento conseguente alla caduta dall’alto.
Le prime valutazioni portarono a non escludere nessuna ipotesi. Ma col passare delle ore si fece forte la convinzione di interrogare il padre dei due bambini, considerato dai militari della locale Stazione dei Carabinieri, così come dalla prevalente opinione comune, eccessivamente burbero ed iroso ed uso a comportamenti verbalmente violenti nei confronti dei figli.
Giuseppe, contadino a tutto tondo, dichiarò di trovarsi, nelle ore (intorno alle 15.00) in cui veniva fatta risalire la morte dei due figli, al lavoro presso il fondo di una signora della Preta, a potare alcuni salici. Questo era dunque il suo alibi.
Si dà il caso che al comando della Tenenza di Montella, cui era stata avocata l’indagine, vi era un giovane Tenente di origini venete, più precisamente del Polesine. Questi, interrogando la signora, le chiese a che ora Giuseppe avesse fatto il lavoro di potatura dei salici. La signora tranquillamente rispose in dialetto: “versu v’ntnora”. Sul verbale di interrogatorio della testimone fu riportata, impropriamente, la traduzione italianizzata: “verso le ore ventuno”. Non parve vero agli investigatori, specie al giovane Tenente, di avere tutti gli elementi per ritenere nullo e smentito l’alibi di Giuseppe. Dalle 15.00 alle 21.00, ragionarono gli investigatori, erano trascorse ben sei ore, quindi Giuseppe poteva aver ucciso i figli e poi essere andato dalla signora a potare i salici.
Il padre dei bambini, a quel punto delle valutazioni investigative, fu prelevato nella sua casa di Dio Martino e portato presso la Caserma di Via Santorelli, dove subì una seria di interrogatori le cui tecniche, diciamo persuasive, sarebbero ai nostri tempi degne di ricorso al Tribunale dell’Aja. Si narra ancora oggi di peli toracici e pubici strappati, di unghie martoriate e di altre piccole e sconvolgenti torture, con l’obiettivo di accelerare la confessione. Ma l’accusato si dichiarava disperatamente innocente.
A questo punto della storia entra in azione un giovane avvocato, Fernando Cozzarelli, da poco laureatosi presso l’Università di Napoli. Questa è la prima causa che deve gestire nel suo paese natìo. E che causa! Da far tremare i polsi! Duplice omicidio volontario con l’aggravante dell’infanticidio! Roba da ergastolo! Così rifletteva (con tutti quei terribili esclamativi) l’avvocato Cozzarelli mentre leggeva i verbali messigli a disposizione dal Giudice Istruttore. Subito gli balzò agli occhi quella stranezza della dichiarazione della signora che collocava alle ore 21.00 la potatura dei salici, quando (si era appunto in ottobre) faceva buio già alle 18.00.
Infatti non perse tempo, Cozzarelli, e in un teso colloquio con il suo assistito gli chiese in dialetto cumm cazzu si ponn putà li salici a r’ nov r’ la sera. L’accusato, strampalato, domandò che cavolo c’entrassero i salici alle nove della sera e insistette nel dire che lui dalla signora c’era stato tutto il pomeriggio fino al tramonto. All’avvocato non rimase allora di sentire la signora. Questa confermò all’avvocato, in dialetto, ca Pepp r’ Malandrino s’ n’era jutu versu v’ntnora. Ma dunque, pensò l’avvocato, che diavolo hanno scritto i carabinieri sul verbale? V’ntnora, infatti, in dialetto corrisponde all’ora che precede il tramonto, quanto le campane suonavano (cosa che ora non fanno più) per annunciare l’inizio delle preghiere vespertine. E in ottobre, a Caposele, le campane r’ v’ntnora suonavano alle 16.30.
Ma se l’alibi di Giuseppe poteva dirsi saldo dopo il chiarimento lessicale, restava da chiarire chi poteva essere stato l’autore di un delitto così atroce ed efferato, atteso che le perizie scientifiche escludevano oramai l’ipotesi dell’incidente accidentale.
In quei giorni a Caposele si videro alcuni cronisti di testate nazionali pronti a raccogliere più gli aspetti di colore su un sud arcaico ed omertoso, che non mostrava nessuna pietà tale da indurre i cittadini a collaborare con le forze dell’ordine per smascherare il mostro omicida. Mi si dice che vi fu addirittura un fondo di Indro Montanelli dalle colonne del Corriere della Sera che, come al solito in controtendenza, contrastava questa idea prevalente e in cui affermava altresì che tali delitti potevano accadere anche nelle pedemontane alpine (prevedeva forse già il delitto di Cogne?).
Intanto, nella sommatoria del dolore per la morte dei due figlioli e di quello causato dall’onta infamante di esserne l’uccisore, Giuseppe non si capacitava della sparizione di quell’ombrello grande e largo che solitamente i figli portavano con sé quando pascolavano un po’ più distante dalla loro casa.
Fuori e dentro la masseria dell’ombrello non v’era traccia, così come neppure sul luogo del ritrovamento dei corpi dei due bambini. Ne fece anche cenno all’avvocato Cozzarelli, il quale a sua volta pose la questione ai militi dell’Arma che la ritennero, giusto per non smentirsi, irrilevante ai fini dell’indagine.
Ma un colpo di scena inatteso, degno della più avvincente letteratura giallistica, irrompe nella nostra storia. Quasi a smentire la tesi sull’omertà delle popolazioni del sud, apparsa sugli articoli della stampa nazionale e della quale non ne conosceva neppure l’esistenza, un signore minuto e col corpo scarno, segno della povertà e delle ristrettezze del dopoguerra, bussa a tarda sera al portone della caserma dei Carabinieri, giungendovi dal vicolo del Casale, forse per non dare nell’occhio.
Laurienzu r’ cafaiu, questo era il suo nome, degli aspetti più controversi dell’uccisione dei bambini ne sapeva quanto un’acca, ovvero meno di niente. Egli viveva vendendo, d’estate, le fette di angurie e lupini salati vicino alla fontana del vecchio cinema e aggiustando, d’autunno e d’inverno, ombrelli e altri ammennicoli vari. Ma com’è, come non è, il punto è che Laurienzu non poteva capacitarsi come quel tipo di Laviano che, molti anni prima, insieme alla madre era stato condannato al carcere per l’uccisione del padre e che dopo la scarcerazione per buona condotta se n’era venuto a vivere a Caposele, dove aveva lontani parenti, si fosse presentato da lui per farsi riparare un ombrello che ben conosceva. Sì, lo conosceva davvero molto bene, quell’ombrello!.
Se ne ricordava perché un anno prima glielo aveva portato per una riparazione proprio Pepp r’ malandrinu. E ricordava anche bene che glielo riparò con del filo bianco, avendo esaurito quello nero. L’ombrello che riparò quel pomeriggio aveva ancora quel filo bianco della vecchia riparazione. Ma Laurienzu si domandava che ci facesse quiru r’scamorza, ovvero lu lavianesu, cu l’ambrella r’ malandrinu ca, puvurieddu, l’aggiu vistu l’atu juornu cu r’ manett miezzu a lu chianu ca su lu purtav’n n’gimma a la caserma.
Il portone della caserma fu aperto da un giovane Appuntato che poi sarebbe rimasto per il resto della sua vita a Caposele. Dinnanzi alle parole di Laurienzu vi fu una iniziale perplessità, come se non si cogliesse il sottile filo dell’opportunità investigativa. Ma il Maresciallo, comandante della Stazione, avendo origliato durante una delle conversazioni tra l’avvocato Cozzarelli e Pepp r’malandrino qualcosa che riguardava l’ombrello e ricordando anche la segnalazione fatta dallo stesso avvocato su quel preciso punto, decise che quella soffiata poteva essere non priva di interesse e, dunque, di conseguenze. Ma a Laurienzu non lo fece capire e lo liquidò frettolosamente e, se vogliamo, anche in malo modo.
La mattina seguente si mise in moto il meccanismo delle verifiche. Si recuperarono informazioni più precise sul lavianese, su cosa facesse, chi frequentasse, dove e con chi lavorasse. Su questo ultimo punto si recuperò un altro interessante tassello. Il nuovo ed inatteso indiziato in realtà lavorava in uno di quei cantieri, in prossimità della Mauta, per la difesa idrogeologica dei costoni montani. Si dedusse che l’ora della fine del lavoro e del ritorno in paese, dovendo gli operai passare proprio dalla Pietra di S. Maria, fosse compatibile con l’ora della scomparsa e dell’uccisione dei bambini.
Il caso volle che il giorno seguente, mentre l’uomo tornava in paese dal lavoro, piovesse con una certa insistenza e dunque egli camminava riparandosi con un grosso e largo ombrello. Quando i carabinieri lo videro che dalla Sanità imboccava Via Ogliara lo bloccarono in fondo alla strada.
L’ombrello era quello di cui aveva parlato Laurienzu r’ cafaiu, con due bacchette legate al telo con del filo bianco. L’uomo fu portato subito in caserma, dove poco dopo giunse anche il Giudice Istruttore del Tribunale di S. Angelo dei Lombardi, accompagnato dal giovane Tenente dei Carabinieri.
Da un primo, più attento e circostanziato esame visivo (ecco la prova decisiva) sul telo prossimo alla punta esterna dell’ombrello erano evidenti tre grosse macchie di sangue. Ovviamente, in assenza della confessione, quello al lavianese, che di cognome faceva Ruglio, fu un processo indiziario. Evidentemente nei vari gradi di giudizio quegli indizi furono ritenuti sufficienti per motivare la condanna all’ergastolo che l’imputato ha scontato in varie case penali fino alla metà degli anni novanta, quando uscì, malato, per vivere da uomo libero gli ultimi due anni della sua vita.
Tratto dal libro “Seletudine” di G.Ceres