
Il viaggio s’era presentato più arduo del previsto. Anche gli ammortizzatori della balilla che era stata in dotazione del Ministero degli Affari Esteri stridevano di stanchezza dopo aver percorso le strade sterrate che da Calitri, passando per la sella di Conza, portavano a Caposele. Sul valico la macchina si fermò e vi scesero due uomini di mezza età. Accendendosi entrambi una sigaretta, potettero stiracchiarsi e provare un poco di sollievo, mentre si faceva sera e dalle colline qua e là apparivano i primi lumi.
“Quei lumi è Castelnuovo –fece l’autista sospirando- quelli è Laviano e di là, giù per la valle, scende fino a Pesto il Sele”. Il rapido imbrunire consigliò la ripresa del viaggio. Bisognava percorrere ancora qualche chilometro prima della conclusione della tappa. Non era il caso di far attendere più del dovuto il Podestà che –ne erano certi- aveva sicuramente mobilitato i notabili del luogo, per un primo e cordiale benvenuto.
Le curve restanti erano vicinissime l’una all’altra, con decisi tornanti a serpentina per il fianco di una collina dai luoghi scoscesi. Ecco Caposele: la destinazione finale di un viaggio iniziato dodici giorni prima dalla Piazza Clotilde di Savoia di Foggia.
Curva dopo curva l’autista si era sforzato di descrivere le caratteristiche del luogo, i personaggi che avrebbero incontrato, i problemi che c’erano stati l’anno prima con l’emanazione del Testo unico sulle acque, per il quale tra la popolazione cominciò ad alimentarsi un sentimento antigovernativo tanto inopportuno quanto improduttivo. Ma di ciò avrebbero avuto tempo e modo per capirne di più nei giorni della programmata permanenza.
Entrando in paese non scorsero anima viva, solo cani che abbaiavano al punto da riuscire a coprire persino lo sbuffante rumore del motore. Dopo aver attraversato il ponte sul fiume Sele, là dove le case si tengono strette come i presepi della tradizione partenopea, l’automobile si accompagnò per una salita dolce che portava ad una piazza animata da un paio di capannelli. Imponente, a confronto delle case intorno, la chiesa che dominava la piazza. La macchina si fermò giustappunto al centro di una stella a cinque punte disegnata dal selciato di pietre bianche e lisce, mentre dal caffé che dava sulla piazza uscì uno sciame di uomini e di bambini.
Aperto lo sportello, sull’autista s’abbatté la sagoma di una figura imponente, vestita con la divisa ufficiale del Partito. Dopo il saluto romano i due si strinsero con vigore la mano. “Caro Ingegnere – fece con voce stentorea l’uomo – bentornato a Caposele”. Immediata la risposta: “Felice di rivederla, caro Podestà”.
Spostandosi sull’altro lato della balilla, ed esauritosi il rituale del saluto romano, l’Ingegnere presentò il suo compagno di viaggio al Podestà. Quest’ultimo non perse tempo e, nuovamente, con tono fermo e deciso gridò a favore degli astanti che “il popolo di Caposele, saluta con grata riconoscenza, il prode camerata Giuseppe Ungaretti, uomo di lettere e di cultura, che ha posto, al servigio del Partito e della nazione, la sua fine e profonda conoscenza”.
I convenevoli non si esaurirono rapidamente tante erano le persone che vollero allungare il braccio destro in segno di benvenuto all’insigne ospite che -così riportava il dispaccio telegrafico che giunse qualche giorno prima dalla sede di Bari dell’Ente Autonomo Acquedotto Pugliese- veniva a concludere un viaggio, a ritroso, per le terre attraversate dall’imponente canale idrico che proprio da Caposele, dai suoi 420 metri di altimetria, faceva scivolare circa 6.000 metri cubi al secondo d’acqua fresca e purissima fino alle piatte pianure della costa pugliese.
Giuseppe Ungaretti, ex combattente della prima guerra, aderì da subito al movimento del cavaliere Benito Mussolini.
Dopo la marcia su Roma, che determinò l’instaurazione del regime fascista in Italia, lavorò al quotidiano del Partito fino a quando non fu inviato a ricoprire, per lunghi dieci anni, la delicata carica di addetto stampa del Ministero degli Esteri. L’anno prima chiese di abbandonare l’incarico per dedicarsi nuovamente alla prosa e alla poesia, viaggiando per le terre non conosciute della penisola italiana. Gli fu concessa in dono una delle balilla del Ministero e il pieno appoggio logistico per i suoi viaggi. Lo stesso Primo Ministro si occupava di mobilitare, anticipatamente, le strutture del Partito affinché agevolassero in ogni modo il viaggio del suo amico Ungaretti. L’Ingegnere, invece, altri non era che il massimo responsabile tecnico dell’Acquedotto Pugliese, cui era stato ordinato di accompagnare Ungaretti, e che per lunghi anni aveva soggiornato proprio a Caposele per completare le opere sussidiarie della grande galleria degli Appennini.
Fatto sta che terminati i convenevoli il Podestà diede loro appuntamento poco più tardi sulla terrazza di Palazzo Cozzarelli, non prima che i due ospiti potessero provvedere ad una necessaria rinfrescata presso la foresteria delle sorgenti della Sanità. Per assicurare loro una non proprio discreta scorta fu dato incarico a don Saverio Corona, animatore dei sabati fascisti e capo militare della milizia cittadina. Gesti di ossequio giungevano dalle persone che impattavano l’inconsueto corteo che discendeva Via Zampari per giungere a Piazza Francesco Tedesco. Arrivati al cancello del palazzo e salendovi le ampie scale pregustarono sapori assai mordenti di cacciagione giungere dalla cucina dabbasso. Alla soglia dell’ingresso che apriva sulla bella terrazza si ripeté il rituale collettivo del saluto romano. A fare gli onori di casa don Luigi, affiancato dal Podestà e dal Segretario del Fascio. Uno ad uno gli altri commensali passarono in rassegna per salutare in modo deferente gli importanti ospiti. Non mancava nessuno di quelli che contavano. Per l’occasione furono persino accantonati antichi e più recenti dissapori, né si poteva trasmettere la percezione che mancasse la necessaria coesione tra gli aderenti al regime: poteva risultare di grande nocumento per gli interessi di ciascuno. Meglio fingere, arte questa ben conosciuta a certa borghesia agraria e bottegaia del tempo.
Non mancava proprio nessuno. C’era il notaio Corona, col più giovane dei suoi figli; c’era il farmacista; c’era l’esattore; c’era il proprietario del grande emporio che dava sulla piazza; c’era il direttore scolastico. Tutte persone di solida, ma non poteva essere altrimenti, fede fascista. Mancava solo il parroco, nonostante fosse ancora fresca l’eco del concordato tra Stato e Chiesa di qualche anno prima. Ma anche a Caposele perduravano le riserva di certa cultura massonica nei confronti dei ministri del clero.
Si sedettero a tavola e, immancabile, seppure attesa, giunse la domanda rivolta ad Ungaretti dal figlio del notaio: “cosa si dice a Roma?”. La risposta parve acerba e severa, ma molto fine ed acuta: “piuttosto cosa si dice qua, di Roma?” Ci pensò don Luigi, porgendo un vassoio di melanzane gratinate, ad evitare che il discorso potesse cadere su qualche argomento vischioso e scivoloso. Il timore inconfessato di ciascuno è che si potesse anche solo evocare il malumore che aveva pervaso il popolo dopo l’emanazione, l’anno prima, del Regio Decreto sulle acque come bene pubblico irrinunciabile, ovvero nella sola disponibilità dello Stato. Quindi si parlò dei primi anni del secolo, quelli dell’epopea della costruzione dell’acquedotto e della lunga galleria di valico, con i tanti lavoratori che erano giunti da ogni parte d’Italia, dello sviluppo del paese verso la zona delle sorgenti. Tanti discorsi che si intrecciavano e che ubriacavano la mente anche più disposta. Ma tant’è. Dopo un lungo sorso di un fresco vinello che veniva continuamente versato nel suo bicchiere, Ungaretti cominciò a respirare profondamente, estraniandosi.
Gli parve di riconoscere vari profumi provenienti dalla boscaglia che incombeva alle spalle del palazzo: “questo è il profumo dell’olmo, questo è d’edera, oh –continuava a pensare tra sé e sé- e questo è d’acacia, sento persino il profumo di sambuco!”.
E pensava alla sua infanzia ad Alessandria d’Egitto e alla sua terra arsa ed incapace di trasmettere le piacevoli sensazioni che stava provando, in quella mite serata di settembre, alle falde del Monte Rotoli. Pensava a tutto questo quando al suo orecchio irruppero, come furie ossesse, della grida giù dalla piazza. Come un ritornello, per tre volte s’udì chiaramente: “Non ci vogliono dare nemmeno l’acqua da bere, imbroglioni e venduti”.
I commensali si portarono tutti alla ringhiera della terrazza. Videro un uomo che fuggendo verso l’altra estremità della piazza veniva inseguito, invano, da don Saverio e da altri miliziani che erano rimasti a piantonare il portone del palazzo. Si fecero severe le facce dei signori che con fare incredulo tornarono a prendere posto a tavola, dove calò un’aria preoccupata. Ci provò il Segretario del Fascio, col suo eloquio forbito, a spiegare che si trattava di un pazzo che entrava ed usciva dal manicomio. Ma in cuor suo, ad Ungaretti, riusciva difficile credere che così fosse, altrimenti non vi sarebbe stata quella reazione di turbamento in ciascuno dei presenti. L’ingegnere lo guardò come per fargli intendere che la spiegazione vera gliela avrebbe data più tardi, tornando alla foresteria. Così fu, una volta che si erano licenziati dopo la conclusione della cena. Il Podestà, augurando loro la buona notte, dichiarò la massima disponibilità per qualunque esigenza che si fosse presentata durante la loro permanenza.
Giunti in foresteria l’ingegnere spiegò che, secondo lui, non era un pazzo ad aver gridato quella frase. Era noto alla dirigenza dell’Acquedotto Pugliese che si stavano costituendo dei ristretti gruppi di carbonari contrari a che l’acqua delle sorgenti non fosse più nella disponibilità del comune di Caposele. Già la realizzazione dell’acquedotto, con la canalizzazione delle acque, aveva procurato la chiusura di tante piccole attività industriali che utilizzavano la forza dell’acqua: mulini, frantoi, tintorie e concerie. Ne conseguì un’ondata di emigrazione verso le americhe che aveva dimezzato il numero di abitanti. “Dopo il Regio Decreto –continuava a spiegare l’Ingegnere- questi sobillatori temono che si tolga tutta la residua acqua che viene ancora oggi riversata nel fiume Sele”. Ma era già tardi e forse era meglio mettersi a letto: la giornata era stata lunga e faticosa.
All’alba Ungaretti scelse di uscirsene presto, appena il sole avrebbe fatto capolino “su quel prato –così ebbe ad annotare sul suo taccuino- dove un tempo le polle d’acqua formavano un lago a ferro di cavallo e da un lato nello sfondo sorge su un salto un povero campanile distaccato dalla sua chiesa trasportata altrove”. Appena fuori dal perimetro delle sorgenti, allungandosi fino alla grande piazza antistante, si accompagnò sino a Tredogge con un gruppo di contadini che si avviavano al lavoro nei campi. Curiose gli parvero alcune donne che, in perfetto e circense equilibrio, trasportavano sul capo canestri pieni di viveri per la lunga giornata di lavoro.
Fermo sul ponte che attraversava il fiume alla confluenza tra il torrente Tredogge e quello di Acqua delle brecce, nell’osservare il gioco di decine e decine di trote saltellanti e sguscianti, sentì avvicinarsi il rumore degli zoccoli di un cavallo nero. Sopra, con posa da soldato di cavalleria d’altri tempi, vi sellava un omino smilzo e certamente non molto alto, con degli occhialetti rotondi. Questi vi si avvicinò e quasi sospirando le parole, pur scandendole e sillabandole, ebbe a dirgli che “è vero, non ci vogliono dare nemmeno l’acqua da bere”. Lo stupore di Ungaretti si fece divertito, tanto da consentire all’ignoto cavaliere di aggiungere: “Signore, non creda a ciò che le verrà illustrato, al contrario. Che dio la benedica”. E ripartì al galoppo verso la collina di Materdomini.
Dell’episodio Ungaretti non ne fece parola, né all’Ingegnere né a nessun altro, restando persuaso che quell’uomo tutto potesse essere, tranne che pazzo. Le tre giornate che seguirono servirono, tra appuntamenti ufficiali e passeggiate per i luoghi prossimi alle sorgenti, a fissare resoconti che furono trasmessi telefonicamente, a Torino, alla sede della “Gazzetta del popolo”, che li pubblicò in data 9 settembre 1938, col titolo “Alle fonti dell’acquedotto”.
Qualche tempo dopo si vide recapitare (per segreta conoscenza), presso la propria casella postale della sede milanese del suo giornale, una serie di missive che un tal geometra Pasquale Ilaria aveva in due diverse occasioni inviato al Podestà di Caposele e un’altra addirittura, a modo di supplica, al Re Vittorio Emanuele III. Ciascuna di queste lettere erano accompagnate dalla stessa, ripetuta appendice contenente quella frase che aveva sentito una sera urlare e il mattino dopo sussurrare: “non ci vogliono dare nemmeno l’acqua da bere”. Ne giunsero altre due, questa volta a distanza di qualche anno l’una dall’altra.
La prima nell’autunno del 1939. Questa volta era firmata dal Capitano del Genio dell’Esercito, Pasquale Ilaria. Solo che in questo caso l’indirizzo del mittente non era lo stesso delle precedenti: isola Tremiti, terra di confinati antifascisti. Là era stato mandato don Pasquale Ilaria dopo l’arresto che era seguito alla rivolta popolare contro lo scippo delle acque. Al grido di “non si vende, non si vende”, quella si rivelò la prima ribellione popolare dopo 17 anni di regime fascista.
La seconda giunse nel febbraio del 1944 a Roma al Liceo Giulio Cesare, dove nel frattempo Ungaretti aveva preso ad insegnare. In quei giorni a Cassino si combatteva una feroce battaglia tra tedeschi e angloamericani. Caposele era stato liberato qualche mese prima, Roma era ancora occupata. Rimase sempre un mistero per Ungaretti capire come potesse essere mai arrivata quella lettera in simili condizioni di guerra. La lettura della lettera, tuttavia, gli trasferì una sensazione piacevole, perché –ora riusciva a confessarlo persino a sé stesso- l’uomo che volevano far passare per pazzo gli era parso da subito simpatico. Ancora ricordava la scena col cavallo sul ponte del fiume, in quella mattina di settembre di qualche anno prima e le parole che ebbe a sussurrare.
Il pazzo, che era geometra, ma poi anche capitano dell’Esercito, scriveva che l’acqua ora si poteva bere, se non altro fino a quando egli fosse restato sindaco di Caposele. Il primo sindaco dopo la liberazione. Si sarebbero certamente incontrati di nuovo -andava pensando Ungaretti- mentre, riposta la lettera nella borsa, risaliva corso Trieste per imboccare la via Nomentana dove avrebbe preso il tram che lo avrebbe riportato a casa, dopo una lunga mattinata di lezioni.
Tratto dal libro “Seletudine” di G.Ceres